Ecco le cure che i medici rifutano per sé stessi
DailyMail 10 Maggio 2014
Quando dovete fare i conti con una diagnosi allarmante, una procedura invasiva od un’operazione rischiosa, probabilmente la domanda più spontanea da porre è «Se fosse in me, lei cosa farebbe?». Ecco il parere di alcuni medici esperti e ricercatori siquali cure loro eviterebbero, e molto spesso si tratta di andare contro il modo di vedere più consolidato.
Uno Psichiatra che non assumerebbe mai anrtidepressivi
La Dott.ssa Joanna Moncrieff è senior lecturer in psichiatria presso il London University College ed autrice di «The Myth Of The Chemical Cure» [Il mito delle cure chimiche].
«Esercito nel campo della psichiatria da oltre 20 anni, e per la mia esperienza gli antidepressivi non fanno nulla di buono. Non li assumerei in nessuna circostanza, nemmeno se fossi a rischio di suicidio.
Tutti gli studi mostrano che – nel migliore dei casi – gli antidepressivi ti fanno sentire un po’ meglio di quanto non farebbe un placebo, il che non significa che curino la depressione.
Dopo anni di scannerizzazione del cervello, non abbiamo una sola prova che la depressione sia collegata ad un qualche squilibrio chimico cerebrale, dunque è discutibile l’idea in sé di trattarla con sostanze chimiche.
Ritengo la depressione una reazione estrema alle circostanze, ed il modo migliore per uscirne è di eliminare le cause, il che a volte vuol dire psicoterapia, a volte modificare la situazione trovando un nuovo lavoro o risolvere i problemi relazionali.
Naturalmente esistono alcune persone che sono depresse senza un apparente motivo, ma ugualmente non abbiamo ancora alcuna prova né che soffrano di un disturbo cerebrale né che gli antidepressivi siano loro di aiuto. La cosa migliore rimane cercare e trovare delle novità che spezzino i circoli viziosi nel pensiero e nel comportamento.
Gli antidepressivi sono delle sostanze psicoattive, che alterano la mente come fanno l’alcool o la cannabis ed io ho sempre pensato che se fossi stata depressa avrei voluto conservare tutta la mia lucidità e le mie facoltà per venir fuori dal pantano e non il ritrovarmi immersa in una nebbia farmacologica della quale non avrei nemmeno capito gli effetti».
Cardiologi che rifiutano le statine
Professor Kevin Channer, cardiologo presso il Claremont Hospital di Sheffield
«Le statine hanno avuto un grosso ruolo nella riduzione degli attacchi cardiaci e degli infarti ed ora c’è una certa tendenza a prescrivere a tutti questo farmaco che abbassa il colesterolo ma io non le assumerei nemmeno una sola volta senza avere prima una prova convincente che il rischio vale il gioco: ogni volta che si prende un farmaco, bisogna ben soppesare rischi e benefici.
Le statine riducono le probabilità di attacco cardiaco od infarto nella misura del 30%, dunque sì, c’è un vantaggio. Ma in termini reali è minimo: statisticamente, quale uomo di 60 anni non fumatore ed in buona salute, il mio rischio di attacco cardiaco od infarto è dell’1% su base annua. Assumendo statine scenderebbe allo 0,70%, che è ugualmente basso ma, avendo passato la vita a prescrivere statine, ne conosco molto bene gli effetti collaterali negativi: dolori muscolari, debilitazione generale, mal di stomaco.
Alcuni sostengono che andrebbero prescritte quando il rischio è all’1,5%, ma io non la prenderei in considerazione se non correndo un rischio del 3%. Tutti quelli che hanno avuto un attacco cardiaco od un infarto hanno un rischio del 3% e quindi il rischio dei dolori vale il prezzo dei benefici.
Dall’altra parte però, assumerei – e li assumo – farmaci che abbissano la pressione; i mie valori personali sono solo al limite e, quale cardiologo, so che con gli anni questi valori pressori non potranno che salire e le ricerche dimostrano che più bassa è la pressione, più vivrai a lungo.
Inoltre mentre i vecchi farmaci causavano effetti collaterali, i nuovi – che bloccano i recettori delle angiotensine – personalmente non mi causano il minimo problema».
Specialista della prostata che non fa il test PSA
Richard Ablin, professore di patologia presso l’University of Arizona College of Medicine.
«Quando nel 1970 ho scoperto il PSA, cioè l’antigene specifico per la prostata, ci rendemmo sùbito conto che sarebbe stato di grande aiuto per i pazienti con tumore alla prostata. La proteina è specifica per la ghiandola prostatica, non si trova infatti in quantità significative in nessun altro organo. Però, se si rimuove la prostata ad un uomo con tumore, grazie alla nostra scoperta si può testare la PSA e verificare se, dopo l’intervento, sono rimaste altre cellule tumorali non individuate prima.
Poi hanno iniziato ad usare il test PSA per la diagnosi del tumore alla prostata. Un grosso errore: il PSA non è tumore-specifico, è semplicemente una proteina prodotta dalla prostata e suoi alti livelli possono indicare “solo” un’infezione alla prostata od un suo allargamento, che a volte è benigno. I livelli “normali” poi variano grandemente da persona a persona e non esiste un valore soglia che significhi che “hai un tumore”. Il test nemmeno distingue fra un tumore prostatico a crescita lentissima ed uno aggressivo a crescita violenta.
Ad ogni modo è stato adottato come modo per diagnosticare il cancro alla prostata e così milioni di maschi sono stati curati eccessivamente e spesso con effetti collaterali tanto debilitanti quanto non necessari. Mi sottoporrei ad un test PSA solo dopo un trattamento per un tumore alla prostata o se fossi a rischio per una famigliarità con esso e vi ricorrerei – a scopo diagnostico – in combinazione con altri test, tipo un esame rettale».
Il Professore che dice che l’attività fisica, da sola, non basta
Jack Winkler, esperto di salute pubblica ed ex professore di politiche nutrizionali presso la London Metropolitan University.
«Per perdere peso devi bruciare più calorie di quante ne assumi = mangia di meno.
L’attività fisica può impedire che mettiate su peso solo se mangiate poco di più del necessario. Ma se siete sovrappeso, mi spiace ma non sarà nemmeno lontanamente sufficiente. Ti mangi a pranzo un panino da 300 calorie? Per compensare devi nuotare per più di un’ora. Per perdere peso, devi bruciare più calorie di quante non ne immagazzini, e l’unico modo è ridurre la quantità dei cibi assunti, questa è la realtà fondamentale.
Aggiungere dell’attività fisica è comunque sempre una buona idea, anche perché apporta molti altri benefici».
Il Chirurgo ortopedico che evita i raggi X
Chris Walker, chirurgo ortopedico presso il Liverpool Bone and Joint Centre.
«Troppo spesso, quando i pazienti lamentano dei dolori e vogliono si faccia qualcosa, i medici li mandano a fare delle lastre e si finisce con una diagnosi di artrite. Al che la gente tende a perdere il controllo e diventare vittima: assume anti-infiammatori (con effetti collaterali gastrointestinali), si allarma all’idea di fare attività fisica e la loro vita si impoverisce in senso lato.
Ecco perché, a meno che non ci siano sintomi allarmanti di artrite – tipo dolore costante o notturno – io eviterò di far fare delle lastre. Con l’età la maggior parte della gente ha qualche problemino alle articolazioni: la cosa migliore da fare è fare del movimento. Le giunture amano il movimento, quello che le danneggia sono la corsa ed i salti ma camminare, nuotare ed andare in bicicletta riducono il dolore e la rigidità e rallentano il manifestarsi dell’artrite. Mantenendosi attivi si perde peso, cosa che è di grandissimo aiuto, e non si finisce depressi perché si è troppo impegnati con la vita».
Un dietologo che non seguirebbe una dieta
Il dottor Ian Campbell è l’ideatore di Bodylibrium, un programma di dimagrimento.
«Tutte le prove indicano che sul lungo periodo raramente una dieta funziona.
Ho lavorato per decenni nell’aiutare la gente a perdere peso e la mia esperienza è che l’unico modo per ottenere risultati veramente duraturi è chiedersi: «Perché? Perché mangio del cibo che mi consola? Perché preferisco il cibo grasso? Perché bevo tanti alcolici? Perché l’attività fisica non mi attira?».
Quello che aiuta veramente la gente a perdere peso in modo efficace è dato da tecniche di modificazione comportamentale (simili alla terapia cognitivo-comportamentale), insieme all’impiego di “strategie”, ad esempio un diario giornaliero di cosa mangiamo e con obbiettivi realistici.
Le diete che incoraggiano degli approcci polarizzati, cioè tutti incentrati su di un aspetto – tipo riduzione dei carboidrati, le diete 5:2 o qualunque altro approccio riduzionista, produrranno solo risultati temporanei che vi condurrà a recuperare il peso perduto».
Lo specialista che dice di lasciar star con le maratone di mezza età
Jeremy Latham, chirurgo ortopedico focalizzato sull’anca, opera presso l’University Hospital Southampton.
«Vedo di continuo persone nei loro 40 e 50 anni che si sono massacrate le articolazioni a causa di una crisi di mezza età che le ha portate a correre una maratona od una gara di triathlon. Bel dilemma, visto che ci sono prove documentate che correre faccia bene alle articolazioni, ma se si va verso l’inverno e non siete allenati, rischiate di accelerare qualsiasi disturbo nascosto a ginocchia o fianchi. Se state entrando nella mezza età e volete dimagrire e rimettervi in forma, il mio consiglio è di camminare, nuotare od andare in bicicletta, che sono tutte attività gentili con le articolazioni.
Ho un vogatore che uso 2 o 3 volte la settimana: è un’ottima attività per il cuore e le parti alte e basse del corpo e non sovraccarica le articolazioni».
La dietologa che non vuole mangiare cibo con grassi ridotti
Elena Bond, dietologa
Elena Bond, dietologa
«Giro alla larga dal cibo etichettato “a basso contenuto di grassi” e nemmeno lo darei ai miei figli. Le etichette possono essere veramente molto fuorvianti. Una maionese od un formaggio cheddar “a basso contenuto di grassi”, per esempio, continuano ad essere molto grassi, ne hanno solo meno rispetto alla precedente “ricetta”. Un biscotto digestivo light della McVitie, ha dunque 78 calorie invece delle 86 del tipo “base”, si tratta di solo 8 calorie in meno.
Mangio alimenti con pochi grassi o del tutto privi, esempio gli yogurt, ma quando si tratta di “a basso contenuto di grassi”, vale la pena controllare l’etichetta anche per vedere con cosa hanno sostituito il grasso: spesso si tratta di zucchero usato per compensare la perdita di gusto».
Lo specialista di asma che vuole eliminare gli inalatori
Mike Thomas, docente di ricerche nella prima assistenza e specialista in medicina della respirazione e terapie dell’asma presso la University of Southampton.
«Molti diventano troppo dipendenti dagli inalatori e finiscono nel panico se non ne hanno a portata di mano. L’uso quotidiano aumenta il rischio di attacchi gravi e gli effetti collaterali degli alti dosaggi di steroidi includono l’assottigliamento delle ossa, la facilità di ecchimosi ed un aumentato rischio di diabete e di pressione alta.
Pertanto, invece di permettere che le persone diventino sempre più dipendenti dagli inalatori, sto collaborando con il Governo in una ricerca volta al verificare come dei semplici esercizi di respirazione combinati con il controllo dell’ansia, possono migliorare il controllo dell’asma.
Una volta che i pazienti vivono meno drammaticamente gli episodi di asma, ricorrono meno agli inalatori. Se avessi l’asma, vorrei imparare come gestirla autonomamente, come migliorare la qualità della vita e diminuire l’assunzione di farmaci».
Lo scienziato dello sport che ritiene inutili i lunghi allenamenti
Stuart Phillips, professore di sport ed attività fisica presso la sLoughborough University
«Da giovane giocavo a rugby e ad hockey su ghiaccio e correvo con regolarità. Ero un po’ gasato e ripetevo che un allenamento aveva senso solo se si protraeva per almeno un’ora ed alla fine eri bagnato di sudore. Oggi penso che allenarsi per più di un’ora sia una perdita di tempo perché i dati mostrano che sono ugualmente produttivi dei periodi di intensa attività della durata di 10 minuti. Studio sia i benefici fisici che quelli psicologici dell’attività fisica ed i benefici in più prodotti da periodi che eccedono l’ora sono piuttosto marginali».
Lo specialista del sonno che non prenderebbe sonniferi
Dr Guy Meadows, specialista del sonno e fondatore della Scuola del Sonno
«I sonniferi minano la fiducia nella capacità naturale di addormentarsi e possono produrre dipendenza psico-fisica. Si inizia col pensare che: “se non prendo una pillola non mi addormenterò”. E così il corpo si aspetta di ricevere un sedativo. E tu corri il rischio di ritrovarti con un’insonnia di rimbalzo quando ne cessi l’assunzione, il che spiega perché così tante persone siano nei guai quando vogliono smettere.
Gli effetti collaterali includono: capogiri, mal di testa, perdite della memoria, senso di rimbambimento. Studi recenti mostrano che i sonniferi forniscono dai 20 ai 30 minuti di sonno in più ma che aumentano di 4 volte il rischio di morte. Per me questo annulla pesantemente i benefici.
Inoltre non è un sonno né naturale né di ristoro e questo perché altera l’“architettura del sonno” limitandone la profondità ed interferendo con il sonno REM, necessari per sentirci riposati al risveglio. In alcuni casi, come quando la carenza di sonno è la seria conseguenza di gravi traumi, sono i sonniferi a dare la possibilità di questo recupero fondamentale. Ma non è la condizione nella quale si ritrova la gran maggioranza della gente».
Il chirurgo che consiglia di evitare le punture di steroidi nei piedi
Andy Goldberg, chirurgo ortopedico presso il Wellington Hospital di Londra
«I dolori ai piedi od ai calcagni sono il principale motivo per una visita ortopedica. Un trattamento usato spesso per ridurre le infiammazioni consiste nelle iniezioni di steroidi ed è l’incubo della mia vita professionale. Se l’iniezione finisce dentro o vicino ad un tendine ne può causare la rottura ed al danneggiamento del piede. Se gli steroidi finiscono nel posto sbagliato, possono danneggiare il “tappetino adiposo” sotto al calcagno, che normalmente assorbe i colpi durante il corre od il saltare.
Se questo “tappetino” è danneggiato, il paziente si ritrova a camminare sulle proprie ossa senza una protezione: fa un male cane e non esiste cura. Ci sono ovviamente casi nei quali gli steroidi aiutano: per esempio per trattare le articolazioni infiammate nell’artrite; ma procederei solo sotto la guida degli ultrasuoni usati da un radiologo esperto.
Nella maggior parte dei dolori al piede ed al calcagno si può dare aiuto con lo stretching, col cambiare calzature o col riposo. Gli steroidi dovrebbero essere solo l’ultima risorsa».
Traduzione per EFFEDIEFFE.com a cura di Massimo Frulla
Fonte > DailyMail
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